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Al rientro dalle ferie: problematiche in stand-by

Del tonno si sa che c’è una doppia realtà, ovvero i numeri ufficiali e ‘il resto’, che è verosimilmente molto di più. Pare che in ogni porto piccolo o grande, se si impara a conoscere qualcuno del posto, si viene a sapere che un po’ tutti sanno degli sbarchi illegali. Qualcuno direbbe subito che proprio per questo è inutile stare a baloccarsi con le quote e le date quando il sommerso resta tale anche se potrebbe essere abbastanza facile intercettarlo. Certo tutte le informazioni tecniche per la pesca del tonno sono circolate come di consueto tra gli appassionati del genere ma quello che fa la differenza è la diffusione fuori dalla loro cerchia. Questo per più di un motivo: perché ad esempio rinnova la conoscenza del fatto che c’è una specie di mare la cui pesca è gestita separatamente con regole stringenti concordate a livello internazionale e che c’è una forma di concorrenza tra diversi tipi di pesca. Per chi pesca il tonno sono banalità ma, appunto, sono informazioni che servono a tutto il settore ricreativo e anche fuori dallo stesso comparto pesca per motivi tanto economici quanto ambientali e sociali.
Il punto su cui appoggiano i casi di repentino aumento del peso gestionale, come nel caso del tonno, sembra essere principalmente quello economico, ovvero la concorrenza tra diversi fruitori. Anche la salvaguardia biologica degli stock è principalmente motivata dalla necessità di avere disponibilità di pesci per i pescatori. È accaduto in nord Europa per la spigola e in fondo accade lo stesso anche nelle nostre acque interne, dove per far trovare belle trote a molti pescatori in un piccolo fiume occorre stringere le regole e aiutare il ricambio. E in ogni caso c’è un aspetto economico che può andare dal prezzo di mercato delle spigole al costo del permesso in una riserva. Ma forse un po’ tutti si sono stufati di poter ripubblicare la stessa identica notizia (quella sulla stagione del tonno rosso) con le stesse identiche critiche e osservazioni, cambiando semplicemente qualche data e qualche numero, da un anno all’altro. E dall’altra parte è probabile che tutti si siano stufati di rileggerla. La pesca ricreativa sembra che alla fine, nel migliore dei casi, non possa far altro che accomodarsi nel suo bravo ruolo di critica di minoranza con appendice propositiva che, ad ogni modo, si sa essere velleitaria. Una posizione che potrebbe essere logorante se non fosse per lo zoccolo duro che deve comunque portare a casa la pagnotta, nel senso di sostenere un mercato piuttosto florido o di mantenere rappresentanza formale.
Chi non è nella ristretta cerchia di quelli che conoscono i rapporti di forza può sottovalutare le difficoltà del lavoro di chi rappresenta i pescatori ricreativi e di chi li rifornisce di beni e servizi, ma occorre anche considerare che il settore resta ingessato sui problemi di breve termine e spesso involuto nei conflitti interni. Peccato, perché non mancherebbero idee e occasioni per proiettare in avanti, se non la capacità di incidere a fondo sulle politiche nazionali, almeno un piano di approccio per il recupero graduale della pescosità e della qualità della pesca nelle acque di maggiore consistenza e accessibilità.
Dal che deriverebbero, tanto per dare motivazioni materiali, aumento dei pescatori, delle vendite, dei tesseramenti e del giro mediatico che li spinge.
Lasciamo stare un momento il tonno, che ha un suo mondo a parte, e lasciamo stare anche le acque interne con le loro dinamiche. Lasciamo stare le singole specie e consideriamo invece i luoghi naturali di più facile accesso per la pesca in mare, ovvero quelli dove si arriva e si pesca facilmente da terra. Ne abbiamo in abbondanza, la maggior parte non compresi in parchi o aree protette, la maggior parte degradati dal punto di vista del pescatore ricreativo medio, peggio che mai per gli occasionali che diventano rapidamente mancati clienti e mancati tesserati, ma anche di quello più sgamato che se i pesci latitano non è che se li può inventare nonostante le sue attrezzature fantascientifiche. Viene facile chiedersi perché con tanto spazio e tanti esperti ed organizzatori manchi ancora un dibattito su qualche proposta di gestione spaziale centrata sulla pesca ricreativa e in special modo sulle acque ‘di battigia’. Mancano forse proposte specifiche, qualcuna è forse restata in fondo a qualche cassetto, o mancheranno le vie per portarle in un ambiente istituzionale o infine per sottrarle a una cassatura di principio per la prelazione totale della pesca commerciale. Una prelazione che è non solo sulle risorse nel senso di carne di pesce ma anche sugli spazi, compresi quelli di scarso o nullo interesse commerciale ma fondamentali per la pesca ricreativa.
Colpisce che quando con l’istituzione di Aree Marine protette si è dovuta ridefinire la gestione della pesca, il settore ricreativo abbia cercato di affrontare l’argomento ma che non abbia saputo farne derivare nessuna prospettiva. I risultati sono stati in generale poco significativi, ma certo si tratta di ambienti limitati dove il privilegio normativo è sempre andato alla piccola pesca professionale. Un laboratorio che, se (forse) non poteva andare oltre a un certo livello in quel contesto, avrebbe potuto e dovuto almeno proiettare una serie di idee ed iniziative nelle acque cosiddette libere.
Quello che unisce il calo di attenzione alle date fatidiche della stagione del tonno alla inconsistenza del settore ricreativo nel realizzare progetti attivi è la capacità di adattamento dei pescatori, che finisce spesso per essere eccessiva. Abituati all’adattamento sui contesti naturali per avere successo in pesca, i pescatori sembrano propensi a non percepire il superamento di una soglia oltre la quale tutto l’impegno che mettono nella pesca viene dissipato per mancanze di materia prima. Dove gli equilibri si modificano gradualmente il problema si diluisce drasticamente. Non sarebbe lo stesso con un blocco repentino delle immissioni nelle acque interne su cui è organizzato il sistema. Nell’esempio delle sponde marine la perdita di pescosità ha impiegato decenni, i pescatori non avevano armi per contrastarla, hanno continuato a lamentarsi senza nessuna speranza che il segnale fosse raccolto ed elaborato. In compenso gli è stata offerta la possibilità di acquistare attrezzature molto migliori per attenuare il progressivo calo di risultati. Il mercato delle attrezzature ha del resto sempre puntato in questa direzione, cercando di adattarsi alle circostanze, e verosimilmente non avrebbe potuto fare molto di più, non solo per le difficoltà oggettive di intervento e organizzazione, ma anche per mancanza di idee e di letture non limitate al breve termine.
Viene certo in mente la start-up virtuosa e certo in giro ce ne sono ma come da copione l’inerzia del sistema è tale da relegare in automatico le iniziative divergenti in determinate e ininfluenti nicchie di fruitori. Se anche i soggetti di maggior peso non possono che cercare di adattarsi al contesto, figuriamoci cosa possa sperare la velleità delle migliori intenzioni nella giungla delle filiere.
La memoria delle condizioni naturali è gradualmente andata persa, la gente va comunque a pesca, si accontenta anche perché non ha confronto e neanche ha solitamente motivo di dubitare che quella che sperimenta lui stesso nelle sue uscite di pesca sia la pescosità naturale di quel luogo. Nel peggiore dei casi si ripete stancamente la lamentela, se non per esperienza per sentito dire dalle generazioni precedenti. Si va comunque a spendere la giornata sull’acqua, qualche pesce continua a uscire e quando le cose vanno proprio bene sembra che l’orgoglio del risultato faccia completamente dimenticare il resto.
In piena sintonia ideale, il mercato ha come primo obiettivo quello di mantenersi piuttosto che rischiare di sprofondare ulteriormente a causa di iniziative che potrebbero non andare a buon fine. Ovvio che in tutto lo scenario manca una regia, che difficilmente viene fuori magicamente se non c’è a monte una progettualità concreta condivisa e lungimirante. Quello che si vede ad oggi sono sporadici ed estemporanei tentativi di coesione del settore e singoli ambiti di interesse sollevati da circostanze esterne, magari anche importanti ma isolate. L’importante è riuscire a buttarcisi, quanto meno per ricavarne un ritorno pubblicitario sulla rete.
In soldoni si può tranquillamente restare arroccati su una serie di cardini cigolanti e specificamente l’agonismo, le riserve, le immissioni, i porti, le attrezzature, i tesseramenti, le concessioni e chi più ne ha più ne metta, ma la chiave per invertire la curva che vede il settore in una crisi ormai cronicizzata è aprire contesti di pesca. Formula astrusa che significa restituire pescosità, ovvero ottimizzare lo stato degli stock ittici naturali di riferimento, nelle zone di pesca di maggiore consistenza in fatto di quantità, diffusione e accessibilità.
Considerare questo per le acque interne chiama a gran voce le acque maggiori sia ferme che soprattutto correnti, dove come sappiamo c’è una catasta di problemi di gestione della fauna ittica. Farlo per il mare e specificamente per la pesca da terra è molto meno complicato anche se da vari punti di vista decisamente più difficile. Bei ragionamenti, opposti a una realtà dalla quale possiamo aspettarci che le cose faranno semplicemente il loro corso, dirette a monte da altre potenti forze e da una inerzia di sistema che continua a vedere anche nel settore ricreativo molta maggiore partecipazione nel favorirla piuttosto che nel contrastarla. Possiamo aspettarcelo, esclusa la residua scarsa probabilità che chi ha responsabilità di rappresentanza e influenza di lobby resetti il pregresso per pianificare una strada di sviluppo condivisa a livello di settore e da integrare a livello di comparto.

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