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Trote e cinghiali

Scenario distopico. Sarebbero bastati e avanzati i divieti di immissione che hanno smantellato la precedente gestione di molte acque e anche di riserve di pesca che erano diventate un riferimento di livello nazionale. Ma se anche non fosse stato, per qualcuno le immissioni non sarebbero servite a molto, perché ci avrebbero pensato i cinghiali. Ma che c’entrano i cinghiali con le trote? Niente, certo: il problema è evitare che il passaggio di persone sul territorio contribuisca alla diffusione del contagio di peste suina che interessa un’ampia zona del nord ovest dello stivale. Per questo nell’area interessata dalla malattia è stato imposto il divieto di praticare attività all’aria aperta, compresa quindi la pesca. Nessun momento avrebbe potuto essere migliore per capire cosa significa imporre restrizioni a causa di un qualche agente patogeno rischioso, se non in questo caso per le persone certo per l’economia, nello specifico quella zootecnica. Più acquisiamo controllo sulla natura, maggiore diventa la probabilità che qualcosa vada storto. Una vera contraddizione. Ci sembra di avere il controllo, ma è un fatto momentaneo che si regge su una continua rincorsa a imporre condizioni non naturali e a cercare di mitigare i problemi che ne derivano. Probabile che la cosa giusta da fare sarebbe sfruttare le nostre capacità di intervento in tutt’altro modo. Qualche esempio banale? Rinaturalizzare i nostri fiumi invece di continuare con le ruspe in alveo e le sezioni trapezoidali? Abbattere gli sbarramenti invece di sacrificare i nostri torrenti al micro idroelettrico? Non è vero che la narrazione, per quanto a volte un po’ ambigua, ci indirizza all’esaltazione dei valori ambientali? Di sicuro anche per la pesca: si va nella riserva, ma l’immagine che si ha in testa è quella di un posto selvaggio dove l’abbondanza è naturale e non inserita in una pianificazione di tipo aziendale. Vada per il surrogato di qualità, anche se ad averne la possibilità si va, che so, in Patagonia? Magari in Nuova Zelanda. Oppure in Islanda, Alaska? Meglio al caldo? Risparmiamoci la lista di destinazioni porno-alieutiche. Sembra quindi di essere alla fine di un vicolo cieco e a dimostrarcelo potrebbero bastare i laghetti a pagamento. Che vanno bene, certamente, se ne potrebbe argomentare all’infinito o quasi, ma è anche evidente che sono un surrogato per quanto pieno di pregi, di cui accontentarsi all’occorrenza. Certo non è facile convincersi che strappare una spigoletta in foce stia al pari di una notte di fuoco con gli striped bass, o che i cavedani a secca valgano i temoli o che la fario del rigagnolo se la veda con la steelhead. Quello che però i pescatori davvero vorrebbero sarebbe avere nei propri territori zone di pesca in contesti naturali integri. I cinghiali alla fine non c’entrano direttamente, ma continuano a fare parte di un sistema di gestione, più o meno che questo possa essere istituzionale. Hanno creato un contesto di caccia abbondantemente utile, evidentemente anche troppo, e si potrebbe fare un parallelo con la pesca ‘assistita’, considerando certo che l’impatto della fauna ittica sul nostro territorio è nettamente minore. Non sarà andata dovunque allo stesso modo, ma per i cinghiali sappiamo come l’interesse venatorio abbia profondamente cambiato il contesto rispetto alle condizioni naturali dei nostri territori. Molte zone si sono trovate a dover fronteggiare la comparsa improvvisa della specie in forme e numeri tali da diventare in vero problema per l’agricoltura e talvolta anche da danneggiare in modo significativo alcuni ecosistemi. Non sembra che, fatte le dovute differenze, la cosa possa ricordare un po’ i siluri? Forse dovremmo ammettere che avrebbe potuto essere meglio aver continuato a pescare cavedani. E diano pure i cacciatori virtuosi la loro interpretazione riguardo ai cinghiali. Alla fine, per simmetria, potremmo temere una peste salmonicola a causa della quale venga chiusa anche la caccia. Distopia appunto.

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